Piccola enciclopedia medica del nuovo millennio 1 – Workism

Piccola enciclopedia medica del nuovo millennio. 1 WORKISM

Nuova religione dai precetti intoccabili o epidemia che si è diffusa rapidamente negli ultimi decenni da un continente all’altro, più lenta del Covid ma con analoga capacità di adattarsi ai contesti e di mutare col tempo? Forse un po’ entrambe le cose.

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Per dirla in maniera precisa senza farsi influenzare dai propri preconcetti prendiamo la definizione di wikipedia. “Il workismo è la convinzione che l’occupazione non sia solo necessaria per la produzione economica, ma sia anche il fulcro della propria identità e dello scopo della vita. Il termine è stato coniato dal giornalista americano Derek Thompson, in un articolo del 2019 per la rivista The Atlantic”. Thompson, Derek (February 24, 2019). “Workism Is Making Americans Miserable”. The Atlantic.
Il workismo può sembrare simile a una setta a causa dell’onere imposto ai lavoratori di presentarsi in modo positivo, usare il pensiero di gruppo, fare in modo che sia il lavoro a dettare le loro relazioni e il loro pensiero e inseguire un risultato sano che potrebbe essere fittizio
”.

Chiamiamolo lavorismo

Oppure possiamo rifarci a due dei guru ispiratori del nostro sito, Andrea Colamedici e Maura Gancitano nel loro “Ma chi me lo fa fare”.Il lavorismo è quello strano spettacolo in cui assistiamo a persone apparentemente felici che dedicano molte più ore al lavoro rispetto a quelle per le quali erano state assunte. (…) Il lavoro si trasforma in questi casi sempre più diffusi in una fede religiosa perché promette identità trascendenza e comunità. Identità, perché produce una mission che ti dice chi sei, cosa vuoi, quali obiettivi devi avere nella vita. Trascendenza perché ti connette con una vision capace di dare senso (o più spesso di offrirne l’illusione). Comunità, perché genera un parco fedeli con cui condividere ed espandere il proprio trust e rinsaldare la relazione tossica”.

Workism, un problema di massa

Vittime del workism lo siamo probabilmente un po’ tutti. Chi più chi meno abbiamo tutti introiettato e fatto nostra un’idea che forse così naturale non è. Il concetto non è se sia o meno giusto lavorare per ottenere un guadagno e/o dare il proprio contributo alla società in cui si vive. Parliamo dell’ideologia del lavoro come fonte unica o prioritaria della propria realizzazione personale.

Credete sia esagerato parlarne come se fosse una malattia? Beh, allora come non pensare che siano “ammalati” i tanti che antepongono il lavoro ai propri affetti e alla propria salute? Di esempi ne conosciamo tutti.
Colamedici e Gancitano (ancora loro!), citano le persone per cui anche le occasioni di svago, le uscite in compagnia, le cene, diventano networking per ampliare la propria rete di conoscenze. “La vita, per un numero crescente di persone, occupa gli interstizi tra una sessione lavorativa e l’altra. Come va? Tutto bene, tanto lavoro, sono esausto ma ce la faremo” è la conversazione tipo a cui capita di assistere”.
I due autori spiegano: “Conosciamo un’infinità di trentenni, quarantenni e cinquantenni che vivono in città lavorocentriche e che sono in pieno burnout, esauriti dal lavoro. Eppure fanno a gara a chi lavora di più (e vive di meno). Dentro multinazionali dal sorriso affabile che in cambio dello status symbol offrono insensatezza, ipercompetizione, diritti sindacali inesistenti. E richiedono disponibilità temporale infinita, bloccati dentro città all’avanguardia in cui è sempre più complicato trovare un alloggio se non si è ricchi di famiglia”.

Proviamo a fare chiarezza

Nel caso di un imprenditore di successo, o di persone impegnate in progetti collettivi o in attività che salvano vite, è comprensibile (“comprensibile” eh, che non significa essere d’accordo, ma capire/comprendere), che ci sia chi decide che il proprio lavoro venga prima di altre cose e divenga motivo “esistenziale”. Lo stesso vale per tante persone che si dedicano a lavori creativi, soprattutto se ben pagati. Diverso è il caso dei milioni di dipendenti, collaboratori, partite iva più o meno reali, impiegati in attività poco appaganti, spesso fisicamente faticose, ripetitive, con paghe che permettono la mera sopravvivenza o una vita “normale” tra preoccupazione per il futuro e piccole soddisfazioni quotidiane.
Perché queste persone dovrebbero sentirsi investite di qualche sacra missione fondamentale da cui dipende la sorte non si sa bene chi cosa? Perché devono considerare la propria occupazione come la ragione della propria realizzazione personale?
Perché stare male o sentirsi depressi se non sono riusciti a realizzare nel lavoro i sogni di guadagno?
Perché un commesso di un magazzino da 1200 euro al mese deve sentirsi frustrato e vivere con vergogna la propria occupazione, mentre l’avvocato che ha comodamente ereditato dal papà lo studio di famiglia, magari lavorando col minimo impegno, deve sentirsi felice e appagato?

La dico banale, banale… Non dovrebbe essere normale giudicare le persone in base al fatto che siano “brave persone”, oneste e rispettose del prossimo, corrette, e non sulla base del guadagno che portano a casa? A parole tutti d’accordo, ma poi…. La religione che ci è stata propinata negli ultimi decenni ha ben lavorato nel nostro subconscio…

Paradossi e profeti

Il top assoluto in Italia lo si è raggiunto con una pubblicità del Parmigiano reggiano del 2021. Un certo Renatino, un povero casaro sorridente e contento di lavorare 365 giorni l’anno, da quando aveva 18 anni, senza aver mai preso un giorno di ferie o malattia e non aver mai fatto vacanza o visto altre città, veniva circondato da ridicoli visitatori ammirati da cotanta dedizione alla causa (la causa del formaggio?).

Una situazione talmente paradossale e imbarazzante da costringere i geniali autori dello spot a ritirarlo in fretta e furia dopo le inevitabili polemiche. Ma già il fatto che sia andato in onda, superando anche tutta una serie di approvazioni è impressionante. Che nessuno si sia accorto che quello che stavano mandando in onda era un’esaltazione del lavoro sfruttato fa venire i brividi. Fa davvero pensare a come una certa mentalità da fine ‘800 sia tornata ad aleggiare anche nel nuovo secolo. Seppellendo decine di anni di conquiste sociali.

Come tutte le religioni poi ci sono i profeti, guarda caso gente che guadagna una fortuna (spesso con merito e genio), ma ritiene che la propria “dedizione alla causa” debba essere fatta propria tout court da tutti gli altri. Compreso l’ultimo collaboratore addetto al ruolo più infimo e meno pagato.
Il numero uno della categoria è ovviamente Elon Musk, che dimostra spesso un livello di insensibilità da brividi.
Il signor Tesla e X secondo uno studio del 2021 guadagna in un minuto quello che altri guadagnano in 26 anni. Ripeto per i più lenti di comprendonio: 1 minuto uguale a 26 anni. In italia, perché se fossimo in Europa dell’Est gli anni sarebbero 60.

Musk & Ma

Ecco, il signore in questione ha dimostrato quale sia la sua considerazione delle persone che lavorano per lui. E lo ha fatto dichiarando come se nulla fosse la sua contrarietà allo smart working. Annunciando da un giorno all’altro d’impero la fine di un regime che permetteva a migliaia di persone di conciliare tempo lavorativo e tempo libero. “Chiunque desideri lavorare da remoto deve essere in ufficio per un minimo (e intendo minimo) di 40 ore a settimana. Altrimenti sarà costretto a lasciare Tesla”. Stessa richiesta è arrivata ai dipendenti di Twitter con la prima mail da neo-presidente del social network con le 40 ore in ufficio considerate il minimo indispensabile per rimanere in aziende e mostrare vero attaccamento al lavoro.
Subito dopo l’acquisto di twitter, era trapelata la notizia non smentita che ai dipendenti del social fosse stato subito chiesto di prepararsi a lavorare 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. “Altrimenti il vostro posto è a rischio” si sarebbero sentiti dire dai manager dell’azienda. E l’ultimo anno i numeri sui licenziamenti della piattaforma diventata nel frattempo X sono impazziti. Persone lasciate senza lavoro come fossero superflue. Come niente fosse. Da un giorno all’altro. Compresa quella signora che si era fatta ritrarre mentre dormiva in ufficio in un sacco a pelo a dimostrazione del suo attaccamento e devozione all’azienda.

Non molto diverso è il “vangelo secondo Jack Ma. Per il fondatore del colosso cinese Alibaba la formula magica della felicità è un numero, il 996. “Bisogna lavorare dalle 9 di mattina alle 9 di sera, 6 giorni alla settimana: chi lavora meno non assaporerà mai la felicità e le ricompense del duro lavoro”.

Un’ossessione dannosa

Mi permetto di citare un’ultima volta i nostri Colamedici e Gancitano. “Non c’è alcunché di sbagliato nel lavoro in sé; il problema risiede piuttosto nel fatto che è diventato un’ossessione. E sembra essere l’unico modo per dignificare la vita, ma si tratta di una possibilità valida soltanto per un numero esiguo di individui (…) La narrazione oggi imperante vuole dunque che la presenza e la produzione di senso passino esclusivamente attraverso l’ambito lavorativo. Soltanto trasformando ogni lavoro qualsiasi in un lavoro amato si potranno trovare gioia, soddisfazione e realizzazione. Ma non c’è niente di vero. La stragrande maggioranza dei lavori non garantisce la realizzazione personale. E la narrazione tossica diffusa per la quale sia il lavoro in sé a nobilitare l’umano non fa che produrre ansia e depressione in chi si colpevolizza per non riuscire a santificare la propria opera lavorativa”.

Pure Mao forse…

Forse al di là del fanatismo di un’epoca per fortuna lontana, non aveva poi così torto Mao Tse-Tung a pensare che ogni tanto provare a cambiare un po’ i ruoli non sarebbe male. Tipo i professori che provano a fare i contadini o gli operai. O i manager che sperimentano qualche settimana al mese di vita da operaio per qualche tempo e “vedere l’effetto che fa”.

Nessuno pensa che ci sia una moltitudine capace di sostituire la genialità di Jack o Musk, per carità. E’ giusto che stiano al loro posto perché hanno dimostrato innegabili capacità straordinarie. Ma, magari, dopo un mesetto di vita sottopadrone, con turni variabili decisi da altri, 1200 euro per arrivare a fine mese e un appartamento di 60 metri quadri ad attenderli a fine giornata, forse parlerebbero con più rispetto e attenzione delle persone che non hanno avuto la loro capacità. E la loro fortuna.

Perché come riconoscono tutte le persone di successo oneste, è la fortuna ,che in definitiva decide delle vite delle persone. Senza una buona dose di fortuna nessuno può realizzare i propri sogni ed esprimere al meglio le proprie potenzialità.