Riporto alcuni estratti dall’introduzione del volume di Francesca Coin, Le grandi dimissioni di cui parliamo qui.
(…) il nuovo rifiuto del lavoro è un sintomo. Sintomo della fine dell’epoca in cui regnava la speranza che il lavoro consentisse di realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento. In cui si pensava che il lavoro fosse parte di un sistema virtuoso che salva il mondo dalla fame e dalla povertà.
Quell’epoca è finita
(…) in questo contesto spesso chi abbandona il lavoro non lo fa perché può permetterselo. Lo fa per sopravvivere. Lo fa perché non ce la fa più, perché è in burnout, per prendersi cura dei propri cari o perché sa benissimo che il vero problema oggi (…) è chi lavora sempre e, nonostante questo, non riesce a racimolare i soldi per pagare sia l’affitto che la cena.
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Chi lascia il lavoro (…) vuole sopravvivere. Non vuole abolire il lavoro, ne ha la nausea.
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Helen Petersen nel suo libro Can’t even: how millenials became the burnout generation (…) ha denunciato il modo in cui la tendenza a lavorare possa portare a una specie di paralisi: uno stato di stanchezza così pervasivo da togliere le energie per tutto il resto.
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Dice Malcolm Harris in Kids these days: human capital and the making of millennials: è proprio quando ogni istante della vita è risucchiato dalla necessità di creare valore che le persone crollano. È quando siamo sospinti così tanto ad eccellere, che smettiamo di funzionare.
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È la Great Resignation,
il fenomeno che ha indotto milioni di persone a lasciare il lavoro alla fine della pandemia. In Italia le dimissioni volontarie hanno sfiorato i due milioni nel 2021 e hanno superato questa soglia nel 2022; e il dato non tiene conto di chi rifiuta proposte inadeguate, fatte di paghe troppo basse o di orari troppo lunghi; di chi opta per il pre-pensionamento, per uscire definitivamente dal mercato del lavoro; di chi decide di non rinnovare un contratto a termine o di chi abbandona un lavoro in nero o come finta partita IVA: tutte esperienze che non vengono intercettate dai dati ufficiali.
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In India…
…si è diffusa una controcultura che mette in discussione l’etica de lavoro e l’obbligo al lavoro salariato. Self-Help Singh, un personaggio di fantasia interpretato da Masood Boomgaard (…) è un demotivatore professionale, il cui fine è stimolare le persone a non fare niente. (…) Smettila d fare le cose che non vuoi fare. (…) Dopo anni in cui il mondo ha cantato le virtù dell’etica del lavoro, dell’efficienza e della competizione, suggerendoci di rendere produttivo ogni istante della nostra vita, Self-Help Singh sostiene l’importanza spirituale di condurre una vita senza scopo e di liberare il tempo dal lavoro, come uno strano guru del post-capitalismo.
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Il Gallup Poll ha sondato l’opinione di un campione di persone occupate in centoquaranta Paesi, per mostrare che irca l’80% della popolazione occupata al mondo odia il proprio lavoro. (…) La maggioranza delle persone, nonostante questo, deriva dal proprio lavoro un senso di dignità e autostima. David Graeber nel suo Bullshit Jobs lo ha definito il paradosso del lavoro contemporaneo, quella strana contraddizione in base alla quale ci si aspetta di ricevere riconoscimento da un’attività considerata degradante.
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Le Grandi Dimissioni
(…) una specie di riscrittura individuale e diffusa delle priorità dell’esistenza, tesa a cambiarne le finalità e le aspettative.
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L’inadeguatezza della retribuzione (…) un sistema produttivo che non offre più una contropartita adeguata per i sacrifici quotidiani di ciascuno.
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Il caso italiano (…) una cultura del lavoro tossica, fatta di salari bassi e turni massacranti, di mobbing e di bullismo, di scarsa sicurezza del e sul lavoro, di vessazioni e di cultura antisindacale.
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In questo contesto, la risolutezza di chi rifiuta un lavoro che rende cinquecento euro al mese, non esprime un privilegio: ci dice che non possiamo permetterci di lasciarci spingere al suicidio da un sistema tossico. Chi non accetta una paga da fame non fa una cosa irragionevole: rifiuta di abbassare l’asticella.