Salari giù, contratti a tempo indeterminato su

Salari giù, contratti a tempo indeterminato su

La sintesi del titolo è un po’ fuorviante e semplificatoria, ma il senso è quello. E fa riferimento a due notizie diverse, forse divergenti, sul mondo del lavoro che ho trovato sul quotidiano Domani.
La prima è negativa e non è una novità, ma un’ennesima conferma. In Italia i salari sono e restano quelli con l’andamento peggiore d’Europa. Non i più bassi in termini assoluti ovviamente, ma quelli che crescono meno. Ormai da decenni. Nella quieta accettazione dei più o, forse, nell’indifferenza generale.

Qui il link all’articolo.


La seconda notizia fortunatamente è positiva. Riguarda i rapporti di lavoro: i dati segnalano una sorprendete ripresa dei contratti a tempo indeterminato a scapito delle forme più precarie. Il che è davvero una bella novità.

Qui il link all’articolo.

Più contratti a tempo indeterminato

Approfondiamo meglio, partendo da quest’ultimo punto. Francesco Seghezzi, il ricercatore autore dell’articolo,  segnala che la quota di occupati a tempo indeterminato è aumentata (anche) nell’ultimo trimestre del 2023. Il primo dato interessante è che in quel periodo sono aumentate dello 0,8% le ore complessivamente lavorate in Italia, una crescita del 2,4% rispetto al 2022. Una tendenza evidente in tutti i settori presi in esame. Le maggiori ore lavorate sono frutto dell’aumento della quota di occupati a tempo indeterminato. Nel trimestre in questione crescono infatti dello 0,9% che significa +145mila persone rispetto al periodo precedente. Se si fa il confronto con il 2022, l’aumento è del 3,3%, ben 460.000 occupati in più!
Forse non è azzardato pensare che si tratti di un trend con solidato e non un fuoco di paglia temporaneo. Infatti rispetto a 10 anni fa il numero degli occupati a tempo indeterminato è cresciuto di 1,47 milioni mentre quelli con contratti a termine sono aumentati di 779.000. E se si guarda agli ultimi 5 anni gli occupati a termine sono stabili. Anzi, i dati più recenti parlano di un calo.

Seghezzi prova a ipotizzare su quali siano le cause di questo andamento inaspettato

  1. Un primo elemento è l’effetto della riforma Fornero che aumentando l’età pensionabile costringe più persone a restare al lavoro. Rimangono al proprio posto, rispetto al passato, più dipendenti con il contratto a tempo indeterminato che era il rapporto maggiormente utilizzato.
  2. Un secondo motivo è che probabilmente inizia a esserci un calo delle persone disposte a lavorare. Forse sono i primi segni della riduzione demografica, o un cambiamento culturale di cui parliamo in altri post. Sta di fatto che la maggiore difficoltà delle imprese a trovare persone le costringe ad utilizzare anche l’incentivo del tempo indeterminato per attrarre lavoratori. E anche questa è una buona notizia.
  3. Un terzo punto è invece una riflessione del ricercatore che nota una tendenza alla polarizzazione nel mercato del lavoro. A fronte di persone con competenze che riescono ad ottenere contratti stabili, esiste una massa di lavoratori a basso livello di competenze che finisce nel vortice dei contratti precari, a tempo, rinnovabili all’infinito da un’azienda all’altra. Da qui l’urgenza di dare a queste persone delle opportunità di formazione e di riqualificazione che possano fornire loro un valore aggiunto per poter aspirare a salari e a condizioni di lavoro migliori.

Stipendi al palo

Il secondo articolo è a cura di Davide Depascale e parla appunto di salari. Che crescono in Europa ma non in Italia.
Come sottolinea l’autore, Giorgia Meloni recentemente ha parlato di dati Ocse secondo i quali gli stipendi sarebbero aumentati con il suo Governo. Ma qui credo che siamo di fronte ad un caso di una persona sempre più staccata dalla realtà, che vede quel che vuole vedere, e non vale la pena perderci tempo.
I dati ufficiali che riporta l’autore dell’articolo dicono invece che il nostro paese è l’unico tra i 27 dell’Unione europea con l’indice del costo del lavoro che va “a marcia indietro”. Anche in questo caso si parla dell’ultimo trimestre del 2023 con dati che fanno segnare una diminuzione dello 0,1%. E’ vero che si tratta di un arretramento minimo, però è in forte controtendenza col resto dei Paesi. Il dato medio dell’Unione europea segna una crescita del 3,8% per gli stipendi. Del 3,1% se si vuole essere precisi e stare ai soli Paesi che appartengono all’eurozona.
Come se non bastasse questi dati misurano le cosiddette “variazioni nominali”. Ossia quelle che non tengono in considerazione l’inflazione. Per misurare la reale perdita di potere di acquisto dei lavoratori bisogna aggiungere l’inflazione al dato sull’andamento delle retribuzioni. Quindi a quel meno 0,1% dobbiamo aggiungere l’inflazione che ha toccato il 5,3%. Questa è la reale perdita di potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti.
Come nota Depascale l’emergenza salari in Italia non è una novità. Siamo l’unico Paese dove le retribuzioni reali sono diminuite dal 1990 a oggi. I dati Ocse parlano di -2,9%, con l’ultimo trimestre 2019 (pandemia) che ha toccato il -10%. Anche qui le scuse non reggono, si tratta del dato peggiore di tutta l’area Ocse.

Tra gli altri Paesi, spicca la Spagna che fa segnalare i migliori aumenti per i salari (+4,2% che diventano +5,2% se si considera tutto il costo del lavoro), la Francia (+2,7%), la Germania (+2,2%).

Vale la pena sottolineare che tra i settori più in difficoltà c’è la pubblica amministrazione dove le retribuzioni sono calate del 3,7% (meno 3,9% se si considera il costo del lavoro complessivo). Anche in questa classifica l’Italia si conferma all’ultimo posto tra i 27 paesi mentre i salari della Francia crescono del 2%, quelli della Germania dell’1,8%, della Spagna di 1,5%. Per non parlare dell’Ungheria (più 19,5%) e della Croazia (+17 9%).

Per giustificare i bassi salari, si utilizzano vari argomenti retorici. Tra i preferiti dai difensori dello status quo c’è il problema del costo del lavoro in Italia. In realtà i dati ci dicono che è in media con il resto del d’Europa: 29,40 € all’ora, contro una media dell’Unione europea di 30,50 €.
Se non funziona l’argomento costo del lavoro, si passa rapidamente al tema della pressione fiscale troppo alta per le imprese. Stando ai dati Eurostat le tasse incidono sulla spesa complessiva a carico dei datori di lavoro per il 27,8%. Sopra la media Ue, ma solo di 3 punti percentuali.

Insomma, la sintesi di Pascale per definire la situazione italiana è: costo del lavoro in linea con gli altri paesi; tasse più alte; salari più bassi.

Il resto è malafede e propaganda. Oppure visioni distorte di persone ormai molto, molto lontane dalla vita reale della gran parte delle persone, in particolare dei lavoratori dipendenti.

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