Le grandi dimissioni 4 – Un matrimonio infelice

Le grandi dimissioni un matrimonio infelice

Proseguo l’estrapolazione di frasi e concetti tratti dal primo capitolo del volume di Francesca Coin, Le grandi dimissioni di cui parliamo qui nella nostra mini bibliografia. Il volume Einaudi Stile Libero Extra è del 2023.
La parte precedente dell’estrapolazione del capitolo è qui.

L’aspetto interessante del dibattito sulla fedeltà è la modalità con cui, nell’ultimo trentennio, la letteratura sulle risorse umane ha compensato lo smantellamento delle diverse forme di retribuzione, che garantivano la fidelizzazione dei lavoratori, con un’abbondanza di riferimenti, cognitivi e affettivi, all’impego richiesto ai lavoratori, dove la parola “impegno” era intesa come sinonimo di matrimonio o di fidanzamento con il lavoro.

La letteratura lo chiama employee engagement, il processo capace di “imbrigliare l’identità delle persone nel proprio ruolo produttivo, con la speranza che questa si appaghi attraverso il lavoro”.
(Il concetto introdotto da William A. Kahn nel 1990 nell’articolo Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work) è diventato fondamentale dagli anni Novanta, quando sono venute a mancare le condizioni di lavoro tipiche dell’epoca fordista e ci si è chiesti in quale maniera trattenere i dipendenti in mancanza di un adeguato riconoscimento professionale ed economico.

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(Da qui) l’dea di far fidanzare il dipendente con la sua attività (…) (avere) persone sposate con il lavoro (…) completamente devote (…) le aziende avrebbero dovuto divenire attraenti e conquistare il cuore dei lavoratori, per indurli così ad amare il proprio lavoro.

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La propria squadra, anzi, la nostra famiglia, anzi, la nostra grande famiglia.

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Come ha scritto Jim Harris, uno dei principali consulenti d’impresa del Nordamerica in Getting Employees to Fall in Love With Your Company: “se catturate il cuore, avrete catturato il dipendente”.

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In generale, negli ultimi trent’anni, la letteratura ha insistito sulla necessità di trasformare il rapporto con i dipendenti in una forma di matrimonio, convincendoli a sposare l’azienda.

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Non puoi pagare i tuoi dipendenti quanto vorresti? Fagli i complimenti” titola un articolo su CBS News.
(Un altro importante consulente) Bob Nelson in Keeping Up in a Down Economy: i complimenti “sono il più potente motore di rendimento che l’umanità conosca. Che si tratti di un dipendente o di un coniuge, quando si elogia qualcuno si ottiene di più di quello che si vuole”.

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Un dipendente fidanzato con l’azienda è disponibile quando si tratta di fare qualcosa in più (…) l’azienda dovrebbe essere come una grande famiglia. Quando un familiare ha bisogno di aiuto, ci si attiva subito, (,…) i dipendenti dovrebbero fare lo stesso: essere devoti all’azienda e adoperarsi per lei persino quando non viene loro chiesto apertamente.

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La richiesta di fedeltà

Come ha spiegato la consulente aziendale Alison Green sul New York Times: “L’espressione siamo una famiglia tende a essere usata in modi che per i lavoratori sono svantaggiosi. (…) Significa “ci aspettiamo che tu ci sia fedele anche se non necessariamente ricambieremo la tua fedeltà”. Oppure “Ci aspettiamo che lavoriate molte ore, che accettiate una paga più bassa e che non vi lamentiate della cattiva gestione perché, ehi, siamo una famiglia e chiedere un aumento o un orario flessibile significherebbe che non siete un giocatore di squadra”.

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Rob Goffee e Gareth Jones hanno osservato nel loro testo The character of a corporation che (…) dietro questa pratica si annida il tentativo di estendere gli orari di lavoro oltre i limiti pattuiti; l’aspettativa che cadano tutte le barriere tra lavoro e vita privata, che le persone siano disponibili 24 ore al giorno e che considerino il lavoro come passione, un hobby, e una priorità affettiva pari alla necessità di trascorrere del tempo con i cari”.

Come scrive Joshua Luna sulla Harvard Business Review questa cultura del lavoro ha effetti tossici. “Quando i dipendenti lavorano con questa mentalità, è solo questione di tempo prima che le prestazioni e la produttività calino a causa del burnout”.

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L’inevitabile matrimonio infelice

In generale, il problema della descrizione di un luogo di lavoro come una famiglia, un matrimonio, un hobby o una passione è che questa lettura tende a falcidiare tutte le regole che normano il rapporto lavorativo. (…) La coesistenza di amore e precarietà si è rivelata una miscela esplosiva (…) interi settori produttivi sono stati in grado di erogare i servizi solo grazie alla dedizione di chi lavorava. In questi settori, l’erosione del potere sindacale, la tendenza a tagliare l’organico, l’esternalizzazione di intere fasi del processo produttivo, il ricorso continuo a cooperative e appalti hanno favorito la proliferazione di forme contrattuali solo in parte regolamentate. Negli anni questo ha comportato un deterioramento trasversale delle condizioni di impiego.

Come evidenziano Samuele Cavalli, Spartaco Greppi e Christian Marazzi ne loro testo La gratuità si paga, nel lavoro dipendente il personale si è trovato esposto a continui “sconfinamenti” delle richieste aziendali nel proprio tempo libero, in un processo che ha trasformato le ore di lavoro straordinario non pagate, le pause tagliate, la reperibilità non retribuita la notte, durante le feste e nei fine settimana, la tendenza ad uscire dal lavoro sempre più tardi, in un vero e proprio “bottino aziendale”.

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L’amore per il lavoro sposta la “linea di demarcazione tra ciò che pensiamo debba essere fatto per amoree ciò che pensiamo debba essere fatto per denaro” scriveva Sarah Jaffe in Il lavoro non ti ama.

Continua: Le grandi dimissioni 5.