Proseguo l’estrapolazione di frasi e concetti tratti dal volume di Francesca Coin, Le grandi dimissioni. concentrandomi qui sulle parti in cui l’autrice si occupa in modo particolare del caso USA, con evidenti similitudini con quanto accade da noi.
Il volume Einaudi Stile Libero Extra è del 2023.
Alcuni estratti dell’introduzione dell’autrice dallo stesso volume.
Il capitolo si apre con una citazione, che è un po’ un manifesto del tema sviluppato e che è tratta da un articolo del 22 agosto 2021 del New York Times in cui una certa Becks afferma:
“Io non voglio far carriera, voglio stare seduta in veranda”.
Francesca Coin segnala che si deve ad Anthony Klotz, psicologo del lavoro all’University College di Londra, in un’intervista a Bloomberg del maggio 2021, l’ideazione del termine Grandi Dimissioni. Sosteneva che le cause fossero varie: lo stress, l’esaurimento e il burnout diffusi nella classe precaria. Ma anche la necessità di conciliare vita e lavoro e il fatto che, a contatto con la morte, durante il covid, molte persone si sarebbero poste domande esistenziali.
L’idea alla base è che, durante la pandemia, la prossimità con la morte, abbia costretto molte persone a mettere in discussione la propria esistenza.
Da qui domande quali: Ha senso trascorrere diverse ore al giorno nel traffico per andare al lavoro? oppure, Ha senso stare più tempo al lavoro che coi figli?, o ancora, Ha senso lavorare per pagare la macchina per andare al lavoro?
In un articolo del New York Times, The future of work should mean working less, Jonathan Malesic ha raccolto alcuni commenti di lavoratori.
Non tornerò più ad essere l’ultimo genitore che va a prendere suo figlio a scuola. (Sasha, 42 anni)
Non tornerò più a stare lontana dai miei figli per 10 o 11 ore al giorno. (Anna, 48 anni).
Non invierò mai più e-mail di lavoro dopo cena o nei fine settimana. (Philip, 46 anni).
Voglio mettere il lavoro al secondo posto. D’ora in poi io e la mia famiglia veniamo prima di tutto. (Jackie, 30 anni).
(…)
Alcuni dati
Negli Stati Uniti 48 milioni di americano hanno lasciato il lavoro nel 2021, un dato superiore di 6 milioni rispetto al precedente record del 2019.
Questo record è stato superato un’altra volta nel 2022, quando 50 milioni me mezzo di persone hanno lasciato il lavoro.
Rispetto alle analisi iniziali, che consideravano l’aumento del numero di dimissioni come un processo temporaneo e congiunturale, l’analisi recenti parlano di una tendenza di lungo corso.
Ne discute uno studio del fondo di investimento BlackRock dal titolo, After the Great Resignation. Shifting Expectations for Employers, pubblicato nell’ottobre 2022, in base al quale il numero di dipendenti che ha lasciato il lavoro in rapporto all’occupazione totale è salito dal 28% nel 2019 al 32,8% nel 2021. Nel 2019 il tasso di abbandono era al 15%.
Ne discute uno studio del fondo di investimento BlackRock dal titolo, After the Great Resignation. Shifting Expectations for Employers, pubblicato nell’ottobre 2022, in base al quale il numero di dipendenti che ha lasciato il lavoro in rapporto all’occupazione totale è salito dal 28% nel 2019 al 32,8% nel 2021. Nel 2019 il tasso di abbandono era al 15%.
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Il caso della ristorazione
Durante la pandemia, la ristorazione è stato uno dei settori più colpiti da chiusure e licenziamenti, e milioni di persone hanno perso il lavoro.
Il rapporto The Impact of Covid-10 on Restaurants Workers across America, del sindacato Roc United, che rappresenta le lavoratrici e i lavoratori del settore, mostra che il 95% degli intervistati ha subito una perdita economica (…). Il 91% ha dichiarato di non aver ricevuto dal proprio datore di lavoro alcuna indennità di rischio. Una persona su dieci si è dovuta recare al lavoro con i sintomi del Covid per via di pressioni economiche, mancanza di congedi retribuiti per malattia, o paura di ritorsioni.
(…)
In poco tempo, milioni di lavoratrici e lavoratori erano stati lasciati a casa, con una rapidità traumatica. Per milioni di persone è diventato chiaro, in quei giorni, che non importa quanti sacrifici tu faccia per il lavoro: alla prima difficoltà il sistema ti sputa fuori e ti lascia a casa.
La rabbia del personale della ristorazione e dell’accoglienza nasce da qui.
(…)
Anche nel retail, nei supermercati e grandi catene, dove i bassi salari, gli orari lunghi e i turni imprevedibili si sono combinati con elevati livelli di contagio. “Indossa la mascherina e non dirlo a nessuno”, era la modalità con cui diversi punti di vendita tentavano di sopperire alla carenza di personale.
(…)
Secondo un rapporto della società di consulenza McKinsey (…) nel retail la flessibilità è al primo posto tra i motivi che spingono a lasciare il lavoro. Questo dato mostra come il concetto di flessibilità sia spesso declinato in modo asimmetrico.
In questo contesto, continua il rapporto, la retribuzione è troppo bassa per offrire una contropartita tale da impedire ai lavoratori e alle lavoratrici di andarsene.
Se ne vanno i poveri
Di fatto, la classe precaria a basso salario è la protagonista delle Grandi dimissioni. Nell’analizzare le caratteristiche sociodemografiche dei dimissionari, il Pew Research Center ha ricondotto questa scelta a tre ragioni prevalenti: la bassa retribuzione, le scarse opportunità di carriera e la sensazione di non essere rispettati sul lavoro.
I laureati sono meno propensi a lasciare il lavoro nel 2021: il 13%, rispetto al 20% di coloro che hanno conseguito una laurea breve e al 22% di coloro che hanno conseguito un diploma di scuola superiore o un titolo di studio inferiore.
Rispetto all’idea secondo cui a compiere questa scelta è solo chi se lo può permettere, il Pew Research Center mostra invece che a farlo è anzitutto chi ha un reddito basso e scarse tutele.
Finora siamo partiti dal presupposto che avere un lavoro fosse un privilegio da onorare, in una analisi che sottende un immaginario tipico del secolo scorso in cui un impiego bastava per pagare le spese e l’affitto. L’evidenza mostra una causa di matrice opposta. Lascia il lavoro anzitutto chi, al lavoro, si trova male.
Questo accade per ragioni diverse, che non possono essere limitate al salario. Quando il salario è basso, tuttavia, non c’è contropartita per i sacrifici che vengono imposti.
Insegnanti e scienziati
Per quanto riguarda la scuola, la National Education Association (Nea), il principale sindacato degli insegnanti degli Stati Uniti, ha rilevato che il 55% degli iscritti sta pensando di lasciare l’istruzione.
“Non c’è alcuna carenza di insegnanti. Ci sono migliaia di insegnanti qualificati che non insegnano più. C’è carenza di rispetto e di compensi adeguati”.
“Sono un insegnante a tempo pieno. Sono le 8 di sera e sono qui a consegnare una pizza. Lo sto facendo perché non riesco a sopravvivere con lo stipendio di un insegnante”.
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Un problema che affligge anche il mondo dell’Università- Gli abbandoni, anche in questo caso, erano iniziati ben prima del marzo 2020.
Di recente uno studio della rivista Nature ha riportato che i lunghi orari, i carichi di lavoro schiaccianti, gli stipendi miseri e le prospettive di carriera limitate, negli Stati Uniti, stanno allontanando dal mondo accademico un quarto degli scienziati a metà carriera.
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Lo smart working
Da anni, la ricerca mostra come il lavoro stesso induca quasi sempre a lavorare di più, a essere always on e sempre disponibili, incluso la sera, nei festivi e nei fine settimana.
Secondo l’Employee Burnout Report, ad esempio, il 67% dei lavoratori da remoto ha sofferto di burnout durante la pandemia. Il 53% ha lavorato più ore di quanto non facesse in ufficio e quasi un terzo ha dichiarato di lavorare “molto di più” rispetto a prima.
Sandra Burchi sull’argomento ha scritto pagine illuminanti, mostrando le ambivalenze di un regime lavorativo che porta con sé vantaggi evidenti, ma anche sofferenza e solitudine.
Nonostante questo, molte aziende, finita l’emergenza, hanno guardato con scetticismo al lavoro da remoto e hanno preso provvedimenti volti a limitarne la fruizione.
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L’inopportunità di questa scelta è sorprendente, perché mostra come la “sindrome del nido vuoto”, la paura di non vedere i dipendenti e di non poterli controllare, venga considerata prioritaria rispetto a politiche di flessibilità che hanno ricadute positive per entrambi.
Più adulti che giovani
Come puntualizzato dal rapporto BlackRock: “Mentre i dipendenti nella fascia d’età tra i 20 e i 30 anni hanno storicamente costituito un’ampia percentuale di abbandoni volontari e continuano a farlo, non sono stati il motore principale della Grandi Dimissioni, contrariamente alle aspettative. (…) I tassi di dimissioni sono stati più alti per tuti gli altri gruppi di età. (…) I tassi di dimissioni per i lavoratori più anziani sono ancora più alti, pari al 30% o più per i dipendenti superiori ai 60 anni.
3 ragioni per le Grandi Dimissioni USA
Un rapporto McKinsey ha provato a sintetizzare le ragioni per cui le persone lasciano.
Sono arrabbiate.
I dipendenti sono stati testimoni di come le aziende abbiano licenziato o messi in cassa integrazione i colleghi durante i rallentamenti dell’attività. Chi è rimasto si è sentito risentito perché gli è stato chiesto di assumersi maggiori oneri e di dedicare più tempo.
Sono esauste.
La salute mentale (burnout e stress), le esigenze di cura ella famiglia e le riflessioni sii propri obiettivi, a causa della pandemia Covid-19, hanno giocato un ruolo importante.
Possono.
Una volta lasciare il lavoro era fonte di ansia, oggi non più. Il prezzo del cambio di lavoro è diminuito notevolmente. (…) A causa dell’attuale carenza di manodopera e della maggiore accettazione del lavoro da remoto, i dipendenti di molti settori sono sicuri di poter trovare un impiego ovunque, in qualsiasi momento.
È plausibile che la differenza principale rispetto al passato non sia l’ansia che lasciare il lavoro genera, ma quella che avere un lavoro placa.
Rispetto a quanto accadeva ieri, il fatto stesso di avere un impiego non risolve le preoccupazioni di chi lavora.
Le paghe sono così esigue e i carichi di lavoro così elevati, che c’è chi teme di non riuscire a pagare l’affitto nonostante il lavoro.